Un angolo di Africa, senza essere in Africa. Conosciamo tutti il Madagascar, come l’enorme isola posizionata di fronte alle coste del Mozambico, con una storia ed un’evoluzione unica al mondo. Qui troverete un ecosistema caratterizzato da una pura autenticità che proprio il distacco dal continente ha contribuito a rendere autentica. Piante, animali, formazioni rocciose ed anche esseri umani del tutto autoctoni. Qui si possono incontrare animali rari, sia per terra che per mare. Canyon mozzafiato. Piante dalla storia millenaria.
Nosy Be, che invece è un’isola un po' più piccola della nostra isola d’Elba, di fronte alla costa ovest del Madagascar, si sta conquistando negli anni la fama di meta turistica, dal carattere però molto intimo ed elitario, rispetto alle ben più note destinazioni dell’Oceano Indiano. In lingua malgascia significa “Isola Grande”, anche se è più nota con il nome di Nosy Manitra, cioè “Isola profumata”, per l’enorme quantità sia di orchidee che in primavera fioriscono decorandone ogni angolo, sia per alberi ed arbusti dal legno profumato come Ebano, ma soprattutto vaniglia, di cui è il madagascar è gran produttore.
Il viaggio
Il piccolo aeroporto internazionale di Fascene, situato su una baia lungo la costa nord-est, ormai, pur non avendo una grande capacità, riesce a ricevere una buona quantità di velivoli, sia come collegamento dalla capitale Antananarivo (Tanà per gli amici), sia con collegamenti diretti tramite voli charter dall’Italia ed altre destinazioni.
Noi arriviamo con un volo charter della Neos da Roma Fiumicino, volo notturno con arrivo il mattino seguente a Nosy Be. Il volo notturno è molto comodo perché si recuperano ore di sonno, per i fortunati che si abbandonano tra le braccia di morfeo in qualsiasi luogo e condizione. L’arrivo in mattinata è molto suggestivo perché durante la fase di atterraggio, l’aereo abbassandosi di quota è come se planasse sull’acqua e sulla baia colma di piccoli scogli ed isolotti.
Alla discesa subito un trauma!!!
Una bomba d’aria caldo-umida proveniente dall’esterno che ci riporta immediatamente alla realtà dopo il sogno condizionato della notte, coperti dal caldo plaid che le hostess ci hanno gentilmente fornito.
Ci si rende subito conto dalle dimensioni dell’aeroporto che qui la realtà locale è ancora molto forte rispetto al respiro internazionale di posti come Maldive o Seychelles. I controlli di sicurezza più blandi, nessuna navetta che ti accoglie sotto il velivolo, il “pizzo” per poter superare l’area controllo passaporti.
Ci accolgono i ragazzi che fanno parte dello staff del tour operator, i quali ci accompagnano in pullman fino alla prima struttura che ci ospiterà.
Lungo il percorso solo verde
tropicale e dolci colline, aria di brezza marina ed un gran profumo di ebano,
caffè ed altri arbusti. Le stradine tortuose, alcune delle quali consentono di
raggiungere gli hotel con il passaggio di solo un’auto per volta, offrono
scorci panoramici meravigliosi, un valido aiuto anche per capire la conformazione
geologica dell’isola.
La prima struttura che ci ospita, Amarina resort nella costa nordovest, è raggiungibile agilmente solo via mare, perché ancora oggi la strada sterrata è una via di comunicazione complicata e lunga da percorrere. Per questo motivo ci avviciniamo ad una piccola baia che ospita un villaggio di pescatori per salire a bordo di piccole lance ed essere traghettati fin sulla spiaggia antistante il resort.
Data la bassa marea non è stato difficile raggiungere le imbarcazioni e quindi provare subito con mano, anzi con piede, la soffice sabbia di Nosy Be. Inutile dire che un approccio in hotel fatto in questa maniera rende tutto più suggestivo ed accattivante.
L’albergo è costruito in stile locale, con i classici soffitti in paglia, l’abbondanza dell’uso del legno nella hall, sia nell’architettura che nell’arredamento, e la cura e lo stile francesi nell’accogliere il turista. Le camere sono tutti edifici fronte mare, sia piano terra che primo piano, molto ampie e profumate, ad una distanza massima di 20 m dalla bellissima spiaggia di sabbia dorata. Il tocco soffice e vellutato sembra quasi accoglierti massaggiandoti la pianta dei piedi. Colpo d’occhio da sogno.
Anche se il colore dell’acqua è poco invitante rispetto ad altre spiagge più blasonate nel mondo, questo per il risultato altalenante delle maree, al di là del promontorio sulla destra dell’hotel si apre una piccola spiaggia dove il livello è decisamente migliore.
Girovagando per Nosy Be
Dopo la registrazione in hotel decidiamo subito di sfruttare il resto della giornata per recuperare in spiaggia la stanchezza del volo e crogiolarci al caldo sole dei tropici.
Nel tardo pomeriggio, che a quelle latitudini significa intorno alle 15:30, dal momento che alle 17:00 il sole è già in avanzata fase calante, partiamo per l’isola sacra Nosy Fanhy, poco più che uno scoglio, dove su una striscia di sabbia bianca ci accoglie un banchetto per festeggiare il nostro arrivo e il tramonto. Dopo esserci tuffati nelle calde acque li intorno ed aver visto i danni che il terribile Tsunami del dicembre 2004 ha provocato anche su queste coste, ci godiamo un bicchiere di vino di fronte all’immensità di un tramonto senza pari.
Emozione grandissima. Percepire sin da subito che quella terra donava all’uomo un’energia speciale. Già dal primo contatto con la sabbia, dal calore delle sue acque e dall’intensità della sua luce. Capire anche il perché quando nei mercatini etnici i ragazzi espongono quei quadri con dei tramonti e dei colori innaturali, il motivo di tanta irruenza nelle pennellate è proprio perché quello è tutto ciò che vedono ogni giorno.
Rientrati giusto in tempo per un riposino e per la splendida cena servita in spiaggia. Ottimo pesce, salsine piccantissime e frutta tropicale sconosciuta hanno completato la giornata.
Dopo una saporitissima colazione a base di frutta, succhi locali e caffè, inizia la perlustrazione dell’isola dal mare.
Prima Tappa
Dopo una traversata di circa 30 min, verso il sud di Nosy Be, raggiungiamo il parco nazionale di Nosy Tanikely. Anche questo è un piccolo scoglio con una bellissima spiaggia a gomito bianchissima. La caratteristica per cui quest’area è riserva marina protetta, su cui non si può sostare più di due ore, è la presenza di un reef intatto in un mare cristallino con toni dal turchese al blu cobalto (banchi di coralli quasi affioranti sono raggiungibili a pochissimi metri dalla riva. Qui i pesci, non essendo abituati alla presenza umana quasi non la temono. Unico problema fine giugno è il periodo di riproduzione di una medusa che vaga trascinata dalle correnti nella sua forma filamentosa e perciò le irritazioni sono molto frequenti, ma niente di pericoloso), mentre sulla terraferma, tra gli alberi, è territorio indiscusso dei lemuri. Questi simpatici animali, uno dei simboli della nazione e dell’adattabilità al territorio, sono ovunque e schivi, preannunciati solo dal penetrante odore delle loro feci e da qualche messaggio di avviso o richiamo che si scambiano nascosti nel frondame degli alberi. La loro presenza è senza dubbio un fortissimo motivo di interesse turistico, ma tutto il contesto dell’isolotto merita una sosta: sembra veramente un angolo di paradiso.
Seconda Tappa
A circa 15 minuti di lancia da Tanikely si trova la tonda Nosy Komba, anch’essa di origini vulcanica, ma decisamente più grande della precedente con i sui 25 km quadrati di grandezza ed i 622m di altitudine massima. Lungo il trasferimento non è difficile imbattersi in famiglie di delfini che si muovono fra le isole in battute di caccia e, spesso, seguono la scia delle imbarcazioni. Anche noi abbiamo avuto questa fortuna, potendo anche tuffarci nel tentativo di avere un incontro ravvicinato.
Nosy Komba è un gioiellino: alcune strutture molto riservate spuntano tra la vegetazione nella manovra di avvicinamento al porticciolo, che altro non è che la spiaggia di attracco. Scampoli di sabbia bianca spuntano un po' lungo tutto il perimetro nonostante sia un’isola vulcanica. L’accoglienza è quella tipica: stuoli di ragazzini, alcuni dei quali in canoa, che sorridenti e festanti curiosano tra i turisti. Dalla spiaggia parte un sentiero che si inerpica nella foresta. Lungo il percorso dolci signore espongono i prodotti tradizionali e tipici come borse di paglia intrecciata e dai vivacissimi colori, tovaglie e lenzuola ricamate con motivi floreali o tartarughe, il simbolo dell’isola, ed altri piccoli manufatti in legno di ebano o corno di bue. La fine del sentiero è il Lemur’s feeding point, cioè il punto in cui i turisti, sempre assistiti da una guida locale, danno da mangiare a dei lemuri un po' più familiarizzanti con l’uomo. Pur non essendo una pratica condivisibile, aiuta l’economia locale, al pari della vendita dei prodotti artigianali, e permette a noi poveri occidentali di entrare in contatto, nel vero senso della parola, con questi animali, piccoli, dal manto morbido e setoso, e maleodorante, con le zampe che al tatto ricordano moltissimo la morbidezza delle dita di un neonato.
Accanto al punto di ritrovo dei lemuri una sorta di mini zoo con alcuni esemplari di tartaruga gigante delle Seychelles, anche se quelli raccolti erano ancora dei cuccioli poco più grandi di un gatto adulto, ed un boa constrictor, che si prestava suo malgrado alle foto ricordo con i turisti più temerari.
Di rientro alla spiaggia sosta per il pranzo in un punto di ristoro locale e tempo dedicato allo shopping, in quello che sembrava essere il più importante centro commerciale dell’isola, ovvero un insieme di poche baracche in ognuna delle quali si vendeva e si contrattava di tutto.
Il ritorno in hotel ha senza dubbio avuto un sapore diverso oggi grazie ai vari incontri avuti con animali lungo tutto il tragitto.
Terza Tappa
Dopo tanta natura, finalmente il terzo giorno occorreva dedicarsi un po' alla cultura. L’unico sito di interesse da questo punto di vista è la capitale dell’isola, cioè la città di Hellville, che con i suoi circa 40 mila abitanti è il principale villaggio.
Fondata intorno alla metà del XIX secolo, deve il suo nome ad un ammiraglio francese. L’aspetto con cui si presenta al turista straniero è quello di una città decadente, dal passato vagamente coloniale, anche se non è visibile nell’architetture dei suoi edifici più importanti, come il Teatro o il carcere. Camminare per le strade del centro, se così si può definire, non è affatto un rischio per il visitatore, anche perché il traffico dei veicoli è quasi inesistente e le strade più interessanti sono quelle su cui si affacciano i negozi di ricami, delle famose tovaglie e di souvenir in genere. Due sono i ricordi più caratterizzanti la visita di Hellville: il primo, trovarsi con l’orario di uscita degli studenti dalla scuola è una fortuna inaspettata. Queste classi di ragazzi che frequentano tutti insieme, a diverse età, le stesse lezioni e tutti in divisa, di un blu acceso. Pantaloni corti per i bambini e gonne al ginocchio per le ragazzine. Ovviamente l’uniforme scolastica era appannaggio solo di chi la scuola potesse frequentarla. Probabilmente non tutti. Ma quella enorme macchia blu che saltellava da un marciapiede al successivo o che, come uno sciame di insetti, si muoveva da un lato all’altro della strada era comunque un esempio di rigore e rispetto per l’istituzione. In un altro angolo della città, invece, per caso abbiamo assistito ad una partita di calcio in un cortile chiuso dove altri studenti avevano un rispetto diverso, sia per la palla arrabattata con varie pezze cucite, che nei confronti della propria uniforme, che di blu, ormai, aveva ben poco.
Il secondo ricordo è quello legato al mercato centrale. Il punto nevralgico di ogni città del terzo mondo, dove gli acquisti sono per consumi giornalieri, dove i prodotti sono freschissimi, come il pesce appena scaricato dal porto e dal fortissimo odore percepibile già dall’esterno, come la frutta coloratissima e squisita presentata nelle cassette in legno e messa in ordine dalle donne con le tipiche decorazioni gialle sul viso( che abbiamo scoperto avere la duplice funzione estetica e protettiva dai raggi del sole e dagli insetti), come i granchi ancora intrappolati nel fango che andava indurendosi con il caldo della giornata, ma, soprattutto, con l’immagine incredibilmente dura e cruda della sezione del mercato occupata dai macellai.
La macellazione è diretta ed i tagli esposti in fila sui pancali di legno o marmo (per i più fortunati) erano irriconoscibili per l’esagerato quantitativo di mosche che vi si erano appoggiate sopra. Un senso di nausea stimolato anche dall’odore acre e penetrante. Orribile pensare che quello fosse cibo, di che tipo di qualità non è chiaro, ma acquistato magari anche a caro prezzo dalle famiglie locali per sfamare i bambini visti prima uscire da scuola. Sicuramente due immagini molto forti dal grande valore simbolico: natura, colori, allegria del mercato da un lato, vita, mancanza di regole igieniche e necessità dall’altro.
A rincuorarci da tutto ciò, all’uscita dal mercato, dove non compriamo nulla per non rischiare di prenderci qualche malattia rara ed insospettabile (quello era il mood ormai), un gruppetto di ragazzini con un sorriso ingenuo e gentile che giocano con un pappagallino tenuto al guinzaglio e che, vedendoci arrivare, ci vengono incontro salutandoci e saltandoci attorno come quando si va alle giostre. Ci si intenerisce talmente tanto il cuore che iniziamo subito a giocare con loro facendo le foto nelle pose più strane e divertenti, ma la sorpresa era che non avevano mai visto una macchina fotografica digitale e quindi la meraviglia di rivedersi e riconoscersi nello schermo era come la scoperta dell’America. La loro gioia di vivere e allegria ci ha riempiti di buone sensazioni e consegnato alla nostra memoria dei momenti indimenticabili.
Lungo la traversata per tornare in hotel, la nostra guida Arthur ci rivela un detto che rimarrà sempre impresso nella mia mente.
“Voi occidentali ridete e siete felici sempre per un motivo: per una promozione, per aver vinto qualcosa, per aver comprato questo o quel cellulare. Noi qui ridiamo semplicemente perché viviamo e non abbiamo bisogno di un motivo per essere felici”.
Il TOUR DELL’ISOLA GRANDE
L’esperienza più emozionante ed avventurosa del nostro viaggio in questo splendido paese è iniziata dal porto di Hellville, precisamente dal molo di attracco dei traghetti per l’Isola Grande. Sembrava troppo facile prendere un traghetto per attraversare quel lembo di mare che ci separa dal Madagascar vero e proprio. Infatti, man mano che l’attesa all’imbarco nel porto cresce, oltre alla convinzione di dover essere trasportati insieme alle merci stipate sui moli, con nostra enorme sorpresa, invece, ci caricano su della lance più moderne, con le quali è stata una meravigliosa passeggiata solcare quella immensa distesa quasi oleosa, dal colore verde-blu scuro, intensissimo, e disseminato qua e là da foglie portate dalle correnti, che ho ancora vivo il ricordo della sensazione di tranquillità e pace che quel tratto tra Hellville ed il porto di Ankify trasmetteva.
Arrivati al porto, o meglio a quell’estensione naturale della strada che giungeva sino al mare, ci dividiamo sui 4x4 ed iniziamo la lunga strada fino alla città di Diego Suarez, oggi nota come Antsiranana. Un percorso degno dei racconti di Piero Angela in Quark. Una spoglia foresta di mangrovie (spoglia un po' perché bassa marea ed un po' perché stagione secca) ci accompagna fino quasi all’imbocco della RN6, la lunghissima arteria che ci porterà fino a destinazione. Lungo il tragitto i paesaggi si alternano con un’incredibile varietà. Il verde del mare e delle mangrovie lascia spazio ad una strada polverosa con rari ricordi di civiltà sparsi nelle radure, per poi, nei pressi di Ambilobe, ripresentarsi nuovamente vicino ad un fiume lungo il quale donne della città accanto fanno il bucato, come da tradizione che perdura da chissà quanti secoli.
La strada scorre lenta, anche perché in molti punti non è particolarmente integra e ben tenuta, offrendoci ogni tanto delle sorprese inaspettate. Durante le soste programmate, come quella del pranzo, ci fanno notare come lungo tutto il tragitto siano presenti svariate postazioni con strane bacche buttate su teli ad essiccare. Si tratta delle bacche di vaniglia, di cui il Madagascar è gran produttore, a costi anche irrisori per gli occidentali, e dalla qualità apprezzata in tutto il mondo. Ma non solo vaniglia, anche caffè, alberi di anacardi, piante di cacao con i loro incredibili frutti appesi lungo tutto il tronco e tante altre specie per noi sconosciute. Una continua carrellata di profumi che non ci ha mai abbandonato, alleggerendo anche la durezza e difficoltà di ben 9 ore percorse in auto.
Una delle prime incredibili meraviglie la incontriamo nella Riserva Speciale dell’Ankarana, un territorio di circa 18 mila ettari caratterizzato dalla presenza di un massiccio roccioso di origine calcarea, eroso per millenni da un’intricata rete di corsi d’acqua sotterranei, che hanno dato vita agli Tsingy Rary. Prima di arrivare al punto di osservazione occorre attraversare a piedi un tratto di foresta, nella quale è possibile trovarsi di fronte a varie specie di lemuri, per lo più in alto sugli alberi, ad alcune specie di camaleonti e, molto più raramente a mammiferi come il temuto Fossa.
Superato il letto di un fiume in secca ci si incunea in un percorso tra rovi e sterpaglie prima di arrivare alla piattaforma di osservazione di questa immensa foresta di roccia, dai colori che spaziano dal grigio chiaro al carbone. Un vastissimo sistema di caverne, cunicoli, monoliti che è difficile solo immaginare, figuriamoci a descrivere.
Una parte è persino visitabile ed attraversabile a piedi, seguendo un sentiero a volte accidentato e complicato, tra alberi pietrificati, stretti passaggi ed una rara e sporadica vegetazione, per lo più composta da piante di ebano. Il ritorno alle vetture è anch’esso complicato, inquanto sembra di essere all’interno di una pista per biglie, con le corsie composte da una sottilissima sabbia rossa e come spartitraffico cespugli spinosi fastidiosissimi. Fatiche ben ricompensate!!!
Finalmente arriviamo in serata nel nostro hotel. La stanchezza è tanta, ma la accoglienza con delle prelibatezze servite a cena ci ha permesso di recuperare per un po', prima di crollare tra le braccia di Morfeo, per quel che riguarda me, con il sorriso sulla faccia.
LA MONTAGNE D’AMBRE
Nel secondo giorno alla scoperta dei tesori del nord dell’isola grande, lasciamo la struttura per percorrere a ritroso la RN6, per raggiungere dopo circa 2 ore un incredibile spettacolo della natura, cioè il parco degli Tsingy Rouge. Il canyon che si presenta davanti ai nostri occhi è una straordinaria pennellata di colori tutti in forte contrasto fra di loro: azzurro del cielo, verde della foresta ed il rosso acceso della roccia
Il panorama sembra quello tipico dei grandi canyon americani e dei film Western anni 70, con in più la consapevolezza che in quella landa desolata sicuramente nessuna carovana e nessuna diligenza sarebbe mai passata. Percorrendo il fiumiciattolo che serpeggia nella vallata, attraversandolo nei punti più bassi con dei ponticelli di fortuna, arriviamo fin sotto il punto di osservazione in cui i pinnacoli calcarei, sempre in movimento e continua evoluzione a causa dell’erosione, sono meglio visibili e quasi li pronti per i selfie.
Direi che la definizione più precisa e calzante è quella che sono un misto tra un velo drappeggiato, quasi scolpito da Canova, e delle meringhe color salmone sapientemente decorate dalla natura. Inutile dire che occorre presentarsi per l’occasione con scarpe non all’ultimo grido e possibilmente stivaletti, perché il rischio di tornarsene con i calzini pietrificati al sole dopo essersi inzuppati i piedi nel fango è altamente frequente.
Dopo gli Tsingy, rientriamo verso la città per far visita al parco nazionale della Montagne d’Ambre, una riserva protetta di oltre 180 km quadrati che ospita una dei maggiori sistemi ricchi di biodiversità di tutta l’isola. Completamente diverso dai panorami affrontati prima, il massiccio vulcanico della Montagne d’Ambre presenta anche climi diversi, a cominciare dalle precipitazioni che raggiungono i 3600mm annui, tant’è vero che la foresta pluviale montana è molto rigogliosa e costellata da laghetti, fiumiciattoli e cascate. La fauna endemica spazia dagli immancabili lemuri ai carnivori alle numerosissime specie di uccelli e rettili, oltre che a rarissimi esemplari di camaleonte, tra cui quello nano, lungo poco più di 1 cm. Molte di questi animali sono endemici locali, proprio nel senso che non sono rintracciabili nemmeno in altre parti dell’isola.
Tappa finale del nostro percorso all’interno del parco è la cascata sacra, un angolo di serenità e riconciliazione con la natura che ben si inquadra in tutto il percorso del viaggio.
Artur ed il pan di zucchero
Nella tappa di rientro all’isola di Nosy be c’è ancora il tempo per convincersi ancora di più, se mai non fossero state sufficienti l’esperienze vissute nei giorni trascorsi, di come questa terra sappia meravigliarti ad ogni metro percorso, anche se i chilometri sembrano tutti uguali.
Dopo quasi una settimana trascorsa in territorio malgascio, ancora non avevamo avvistato, neanche da lontano, quello che è il simbolo per eccellenza della nazione, l’incredibile albero di baobab. Questa straordinaria pianta testimone del tempo e delle civiltà, che resiste alle ere e dona riparo ed aiuti all’uomo ed agli animali.
Sapevamo che il più noto Boulevard des Baobabs era collocato geograficamente in una parte dell’isola (quella ovest) con caratteristiche morfologiche e climatiche più adatte, ma stentavamo a credere che non se ne potesse trovare neanche uno in altre parti. Invece, meraviglia, nel mentre raggiungiamo un altro punto panoramico all’interno della baia di Antsiranana, in un colpo solo possiamo assistere alla bellezza del pan di zucchero, un cono capovolto collocato nella parte meridionale della baia, quasi a fungere da faro e punto di riferimento sicuro per le decine di marinai che hanno solcato questi mari nei secoli, e sua maestà o maestosità il Baobab.
Anche se più che sua maestà sembrava essere di fronte ai principini reali, perché le dimensioni del corpo tradivano la giovane età degli esemplari, era comunque un’emozione vedere insieme due simboli così forti e legati inevitabilmente al territorio. Direi soddisfazione massima!
Ultima sosta e sorpresa prima di riaffrontare il canale che da Ankify ci riporta sull’isola di Nosy be, è stato il centro di recupero delle tartarughe giganti delle Seychelles. Lì abbiamo avuto la fortuna di fare un incontro ravvicinato con un giovanotto di quasi 130 anni: Artur. Questo bellissimo esemplare era stato raccolto decenni prima e salvato da morte certa, cresciuto in cattività, ma diventato quasi un membro della comunità per il modo in cui i locali lo nutrono e coccolano. Quasi una divinità, alla fine la saggezza e l’esperienza non gli mancano di certo. E se potesse parlare…
La nostra avventura volge quasi al termine al momento in cui mettiamo piede nel resort in cui soggiorniamo gli ultimi due giorni. Ci troviamo al Loharano resort nella costa di Ambaro. La posizione è particolarmente esposta al fenomeno delle maree, ma il punto di mare del resort non è affatto male, posizionato di fronte all’isola di Nosy Sakatia, facilmente raggiungibile in barca.
Il resort è molto carino e la proprietaria, la signora Isoletta da Verona, una persona gentile e squisita che ha dispensato una moltitudine di consigli su come viversi l’isola e del perché ci si dovrebbe trasferire lì, come fece lei alcuni anni prima.
La particolarità dell’hotel, oltre allo stile tipicamente africano, è che per raggiungere la spiaggia occorre necessariamente attraversare un piccolo villaggio di pescatori locali, con le loro tipiche abitazioni su palafitte. Dopo il tramonto, infatti, non è difficile ascoltare il vociare dei bambini che ridono o litigano all’interno delle loro case.
Accanto all’hotel, all’esterno del villaggio, piccoli punti di ristoro, dove assaporare grigliate di aragosta a prezzi indecentemente bassi, un giovane pittore esprime la sua arte vendendo tele dipinte a mano con i soggetti tipici della tradizione africana. Figure esili, ma sinuose che si stagliano contro il bagliore del tramonto, animali stilizzati nella loro stessa ombra, stupende albe e tramonti dai colori vividi e forti. Ottimi acquisti ed un po' di malinconia.
L’ultimo giorno, quello della partenza, capisci che è finita e che qualcosa ti è veramente entrata dentro, sotto pelle, da questo viaggio. Un’esperienza forte che difficilmente sarà lavata via con una doccia di quotidiana occidentalità. Gli stessi profumi e cibi hanno impregnato il mio corpo per settimane dopo il ritorno. L’impatto fortissimo che questa terra genera con il tuo io è come dopo uno schianto in moto ad alta velocità: impossibile uscirne illesi. Metafora forte sì, ma rende l’idea. Paradossalmente però, lì, la calma è la principale virtù. Lo scorrere lento del tempo è lo stile proprio della gente. Mora Mora!
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